United States of ‘Italia’
Non avevo mai visto, nella finale di un Grande Slam, due ragazze sedute a chiacchierare sorridendo, come se avessero appena finito una partita di club, e si stessero facendo confidenze, a proposito di un qualche argomento poco importante, quasi una domandasse all’altra a che film avrebbe assistito, un paio d’ore dopo, o che tavola calda avesse scelto

Sogno di una notte di fine estate
Immaginate di vedere due ‘carusedde’ salentine (di Brindisi Flavia, di Taranto Roberta) calcare il cemento blu cobalto dell’Arthur Ashe Stadium di Flushing Meadows, nel quartiere del Queens, a New York. Mettiamo anche il caso che in palio ci sia la finale dello US Open, uno dei tornei più scintillanti al mondo, l’ultimo di quattro Slam stagionali. Figuriamoci quali sentimenti possano aver provato nel corridoio che conduce al campo, percependo sulla pelle il brusio di ventimila anime in attesa del duello. Oggi, a quasi dieci anni di distanza dal 12 settembre 2015, possiamo rivivere le emozioni di quella notte, trasmesse dalle parole di Gianni Clerici, che all’indomani della partita scriveva così su La Repubblica:
La finale di questo Slam resterà, spero, indimenticabile, per i toni dimessi, quasi ventimila persone, che avevano pagato ai bagarini sino a 500 dollari di biglietti, non ci fossero state, cancellate da quell’amicizia, dal carattere provinciale della partita. Dico provinciale, e questo non vuol essere una diminuzione. Le due ragazze italiane vengono da città grandi, ma sempre di provincia, città in cui la sera, passando dalla strada principale, è più facile conoscere un concittadino che ignorarlo

Quasi concittadine
Non a caso, Flavia Pennetta (classe ’82) e Roberta Vinci (classe ’83) si conoscevano sin da ragazzine, tempi in cui erano state compagne di doppio, capaci di vincere il Torneo Avvenire, il Trofeo Bonfiglio, diversi titoli ITF e persino il Roland Garros Junior. Conterranee e complici si potrebbe dire, tanto da conferire alla finale Slam un’atmosfera distesa, quasi surreale visto il contesto, lontana anni luce dall’antagonismo esasperato e dai duelli psicologici di certe altre partite.
Quel che resterà, al di là del record, al di là del risultato, è l’umanità e l’amicizia, qualcosa che avevo già ammirato e addirittura fatto notare, nel match tra Venus e Serena. Che sono, ricordo, sorelle. Non diversamente da quanto Flavia e Robertina si siano dimostrate amiche
Visibile e invisibile
Considerato il tenore della disputa e il medesimo palcoscenico, sorge spontaneo il paragone con le pagine di Levels of the Game: nel libro di John McPhee, a metà tra la cronaca e il romanzo, il confronto in campo tra Arthur Ashe e Clark Graebner (semifinale US Open 1968) viene dissezionato e spiegato, con descrizioni che prendono il via dai gesti tecnici e atletici dei contendenti, fino a giungere alla componente psicologica della loro prestazione. I tennisti, entrambi americani, ma quanto mai distanti per estrazione sociale e percorsi di vita, riversano in campo tutta la loro diversità caratteriale con gesti, sospiri e parole, trasposti magistralmente nel racconto di McPhee, che ne fa un vero e proprio trattato sul microcosmo racchiuso in una partita di tennis. Se vogliamo, questo approccio di narrazione composita è rintracciabile anche nello stile di Clerici, che non si limita a parlare degli aspetti visibili del match (che anzi spesso trascura), scendendo nei dettagli reconditi e nel ‘non detto’. La cronaca di questa finale tutta italiana, tuttavia, si limita a un paragrafetto striminzito, dove si percepisce la distanza di Gianni, certo rammaricato per non averla potuta vedere dal vivo:
Dovrei anche commentare, un po’ da distante, il match, nei suoi aspetti tecnici. Direi allora, lontano come sono, con immagini televisive che, so per diretta esperienza, sono lievemente diverse da quelle reali, come i film sono diversi dalla vita, che la geometria ha prevalso sull’immaginazione, la solidità sulla creatività, e insomma il tennis di oggi su quello di ieri. Robertina è sì riuscita a ritornare da un primo svantaggio del quale era lei stessa responsabile, più di quanto non lo fosse Flavia, non ancora al massimo delle geometrie. Ma, terminato il tiebreak, la partita era, almeno per me, spettatore professionista, praticamente finita, e la frustrata creatività di Robertina non aveva nessuna possibilità di invertirne il destino

Derby tricolore
Era stata Flavia Pennetta ad aggiudicarsi quella finale, annunciando poi, al termine dell’incontro, il suo ritiro da quei campi che tante soddisfazioni le avevano dato. Proprio stanotte, nell’Arthur Ashe Stadium, gli spettatori hanno potuto assistere a un altro derby d’Italia. A contendersi un posto in semifinale due amici: il numero uno al mondo Jannik Sinner e il suo più diretto inseguitore italiano nel ranking, il n. 10 Lorenzo Musetti. A bocce ferme, si potrebbe dire che il punteggio di 6-1, 6-4, 6-2 a favore di Sinner non renda sufficiente giustizia alla battaglia offerta dal carrarese Musetti. La verità è però che il divario è netto, tanto che lo stesso Musetti in conferenza post-partita, impressionato dalla sua solidità e rapidità di palla, ha definito il gioco dell’altoatesino ‘opprimente’, augurandogli poi di difendere il titolo conseguito nel 2024. Ad attendere Jannik in semifinale c’è ora il canadese Félix Auger-Aliassime, probabile “antipasto” del nuovo capitolo della saga infinita Sinner-Alcaraz.