
È un filo d’erba che fende il tramonto,
una stilla di sudore che bagna il palcoscenico.
È il gesso che evapora sotto i colpi degli dèi:
una sinfonia di Roger, una sferzata di Rafa.
È giocare per tre giorni la stessa maledetta partita,
è la mezz’ora di fuoco dell’impavida Steffi.
È un tappo di sughero che invade l’arena,
una coppa dorata di fragole e panna.
È l’erba spelacchiata ai confini del campo,
è un po’ di cemento e un po’ anche di terra.

È un giudice di linea che diventa automa,
una linea laterale che si fa frontiera.
È una steccata che schizza in orbita ed
è un lob che precipita al suolo.
È un saliscendi, un’astronave,
è scivolare, cadere e farsi del male.
È giocare zoppi, mesti, fasciati,
fare a botte col gomito del tennista.
È giocare col tifo contro e col vento a favore,
il pugno chiuso che stringe un silenzio.

È la mano che trema sulla seconda di servizio:
è un ace sulla seconda di servizio.
È Hanspeter che resta di sale e
Siglinde che nasconde il viso.
È ricevere la tessera del club
perché li hai sconfitti tutti,
dal primo all’ultimo della fila.
Perché tu sei il primo della fila.
Perché oggi Wimbledon è…
Jannik Sinner
Giuseppe Cosio